Siamo in Calabria, nei luoghi nei quali Mallamaci vive. Luoghi che mettono a confronto paesaggi sublimi e speculazioni edilizie, natura incontaminata e natura corrotta dall’uomo e dalle sue storie, reperti storici e rifiuti industriali, tradizioni popolari ricche di fascino e governo della ‘Ndrangheta. A cura di Giovanna Calvenzi
Due sono i punti di riferimento che Alessandro Mallamaci ci offre per entrare nel merito della sua narrazione. Il primo è geografico: “La vallata della fiumara Sant’Agata trova asilo tra la terra rossa delle montagne dell’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, e si spinge verso il mare, fino a tuffarsi nello stretto di Messina. Il nome del corso d’acqua ha origine dal greco aghatè, che si lega a concetti quali bellezza, bontà, e nobiltà; come se i viaggiatori del periodo magnogreco avessero subìto l’incanto di questo luogo”. Il secondo è affettivo, una sorta di postfazione che intende chiarire il titolo del suo lavoro: “Questo è il mio paesaggio. Non posso non amarlo. È un luogo bello”. Una spiegazione non richiesta che mette in evidenza, da subito, dalla prima immagine, un legame forte ma anche consapevole e doloroso nei confronti di un paesaggio amato.
Ora il viaggio può iniziare. Siamo in Calabria, nei luoghi nei quali Mallamaci vive. Luoghi che mettono a confronto paesaggi sublimi e speculazioni edilizie, natura incontaminata e natura corrotta dall’uomo e dalle sue storie, reperti storici e rifiuti industriali, tradizioni popolari ricche di fascino e governo della ‘Ndrangheta. Le contraddizioni, come lui stesso sottolinea, sono il leitmotiv di questa zona d’Italia e tra queste alternanze, per cinque anni, Mallamaci si muove e lavora. Cerca per la sua fotografia una distanza equa che faccia dialogare dettagli e visioni allargate, persone e cose, che costruisca un itinerario che si sviluppa in verticale nel quale si inseriscano – quasi una pausa – visioni orizzontali.
Sono luoghi nei quali convivono tradizioni popolari, la gioia di essere insieme, il modo di allevare il bestiame che non risente dello scorrere del tempo e i reperti degli abbandoni, le tracce arrugginite dal tempo, la sterpaglia che invade il cemento, i muri che si sgretolano e i muri che resistono. Non cerca la denuncia e non cerca lo sguardo oggettivo. Seleziona le sue inquadrature con un intento che non giudica ma che cerca l’empatia, forse persino un esercizio di pietas che trasformi le persistenze del disagio in una sorta di opera di land art. Costruisce una sequenza di immagini di dettagli e visioni allargate che pagina dopo pagina ci guida in un paese che non conosciamo, che è soltanto suo, e cita Umberto Zanotti Bianco: “Non v’è bellezza di territorio non ancora destato, non c’è ricchezza di nuovi mondi appena lambiti dalla civiltà, che valga il fascino di questa ignorata e pur vecchia Calabria, …”.
Ha dei maestri. Quei rilettori del “banale quotidiano” che, dagli anni Ottanta del secolo scorso, hanno dato una direzione diversa alla fotografia italiana, che ci hanno insegnato a vedere un territorio trasformato, a convivere con paesaggi che hanno soffocato e dimenticato le bellezze del Grand Tour. Con identico rispetto e forse con identico amore Mallamaci guarda ai luoghi che attraversa ogni giorno e che ogni giorno lo costringono con quella sospensione di giudizio altrimenti inevitabile. Pensa a Guido Guidi, a Stephen Shore, a Robert Adams, a Luigi Ghirri, si confronta con l’amico Filippo Romano e fa sue le lezioni di chi ha cercato e cerca di ricomporre con la fotografia i disagi che la storia ha inciso sull’ambiente. A questo “luogo bello” Mallamaci dedica una lunga canzone d’amore, con la consapevolezza che ognuno nelle immagini della sua Calabria vedrà quello che le esperienze gli hanno insegnato a vedere, ma vedrà anche e comunque una dedica di grande poesia a una terra che soffre.
Giovanna Calvenzi
Alessandro Mallamaci, UN LUOGO BELLO: https://www.alessandromallamaci.it/go/un-luogo-bello-book