Il racconto di Michele Carnimeo è un viaggio visivo unico nel cuore dell’arcipelago indonesiano. Attraverso scatti autentici l’autore racconta di un luogo remoto e di una comunità sospesa nel tempo che ha un rapporto profondo con la natura.
Indonesia 2019.
A Labuan Bajo, sull’isola di Flores, si arriva comodamente in aereo, ma io ci sono arrivato da Bali, in quattro giorni di navigazione su un rocambolesco battello di legno a vela e motore. Ricordavo di aver letto cose interessanti su Labuan Bajo, ma non è stato così. Avendo prenotato per alcuni giorni, mi sono sentito stretto e costretto in questo luogo, anche bello, ma senza attrattive per me. Per un pò ho consumato le mie infradito lungo i viali, ma poi sono uscito dai soliti percorsi e mi sono infrattato dove i turisti non vanno. Vicoli sempre più stretti mi hanno risucchiato in una distesa di baracche di lamiera. Alla fine il porto dei pescatori.
Perso in questo labirinto sono molto più a mio agio. Mi sono ritrovato a giocare con bimbi che sguizzano tra case e pozzanghere. In un inglese sgangherato ho chiacchierato con alcuni pescatori che mi hanno parlato del Villaggio di Wae Rebo. Incuriosito ho cercato informazioni. Una piccola agenzia ha trovato il modo per andarci, fornendomi un autista e una pseudo guida: Ihmel una ragazzina di 19 anni, chiedendomi di farle fare pratica con l’inglese. La cosa mi sembra strana ma si rivela preziosa.
Con una fuoristrada abbiamo impiegato quattro ore per percorrere 50 chilometri di piste e sterrato. Breve sosta per mangiare e l’autista ci affida a dei tipi in scooter per fare altri 5 chilometri di stretti sentieri in salita tra buche e sassi. Ad un certo punto ci mollano in mezzo alla giungla e dicono di camminare in una certa direzione per trovare il sentiero per il villaggio. Io e Ihmel ci guardiamo e con un atto di fede ci avventuriamo.
Troviamo il sentiero appena riconoscibile e iniziamo a salire. Il cielo scompare, sulle nostre teste un fitto manto di arbusti e foglie, una cappa di caldo e umido toglie il respiro. Saliamo stretti tra pareti di alberi, compressi in una natura prorompente, a tratti si aprono squarci di panorama sulle colline che stiamo scalando. Dopo venti minuti sono sfiancato. Completamente bagnato di sudore e senza fiato per l’afa. Sarei ridisceso se non fosse stato per l’incoraggiamento di Ihmel. Facciamo varie soste e dopo tre ore di salita arriviamo.
Scavalcate le colline scendiamo nella conca dove ci sono sette grandi capanne a forma di cono. Ci conducono dal capo degli anziani. Ci spiega le regole del villaggio: “Comportatevi bene e non date fastidio, ma soprattutto non salite sul grande tumulo di pietre circolare al centro del piazzale, quello è l’Altare Sacro”.
Ihmel traduce tutto per me. Ci ritroviamo sbalzati indietro nel tempo, in una tribù senza elettricità né tecnologia. Vivono isolati dal mondo e immersi nella natura da 19 generazioni, da quando arrivarono qui da Sumatra più di un secolo fa. Muoversi nel villaggio, tra persone di un altro tempo che parlano solo la loro lingua, è irreale, sembra di essere in un film. Mi aggiro con grande rispetto per non intaccare questa vita, che seppur contaminata dal presente, è di un’altra epoca.
Tutto è rallentato. Vivono in armonia con la natura, curano l’ambiente circostante e si nutrono di quello che coltivano o offre la foresta. Raccolgono caffè, vaniglia, cannella per venderli insieme ai loro prodotti artigianali. Grazie a Ihmel che mi fa da interprete riesco ad entrare in un paio di grandi capanne dove abitano sino a otto famiglie. La struttura è circolare, ai bordi ci sono gli alloggi, al centro i fuochi dove le donne cucinano mentre accudiscono i bambini.
È difficile comunicare, ma un tè riscalda l’atmosfera. Intanto tornano gli uomini dal lavoro, dalla caccia e cerchiamo di dialogare. Mi chiedono da dove vengo, come vivo, gli faccio domande ed entriamo in relazione. Prima di congedarci, Ihmel mi dice che si aspettano da me un discorso di commiato. È stato difficile in quel momento riuscire a dire qualcosa di sensato, di non convenzionale, autentico e rispettoso verso questa gente che vive immersa nella natura, in una dimensione comunitaria, lontani da tutto ciò che noi chiamiamo “civiltà”. Ma quale civiltà ???